sabato 22 ottobre 2011

“This must be the place”, Penn e Sorrentino: incontro tra “divi”

Cheyenne (Sean Penn) è una ex rockstar degli anni 80, leader dei Fellows. Vive rintanato tra noia e apatia nella sua tenuta di Dublino, insieme alla sua  fedele  e solare compagna Jane. Un giorno, Cheyenne, riceve una telefonata che lo informa dell’imminente morte del padre, con cui aveva interrotto i rapporti da anni, così, nonostante la paura di volare, si precipita negli States  al capezzale paterno.  Dopo la morte del padre, Cheyenne, scopre che  da anni, egli, dava la caccia ad un ufficiale nazista, Aloise Lange, che lo aveva umiliato durante l’olocausto. Proprio questa scoperta, fornisce a Cheyenne e alla sua pigra  esistenza un obiettivo, che lo condurrà a vendicare il padre ma  anche a ritrovare se stesso.

Al  Festival di Cannes del 2008, Paolo Sorrentino presentava “Il divo” come film in concorso e Sean Penn presiedeva la giuria del Festival, ed è proprio in questa occasione che si promisero , prima o poi, di lavorare insieme. Da quella promessa,  è partorita l’idea di “This must  be the place”, un film scritto dallo stesso regista, Sorrentino, con l’aiuto di Umberto Contarello ; una sceneggiatura, come s’intuisce dal film, con un protagonista perfettamente pensato per le magnifiche capacità interpretative di Sean Penn.  La “Burtoniana” figura di Cheyenne  è ispirata al leader dei Cure, Robert Smith, al quale ruba  i capelli cotonati, le labbra scarlatte e gli occhi contornati di nero:  un personaggio “black” fuori ma pieno di sfumature dentro , che esteriorizza il ricordo “gothic-rock”che ha di se, negandolo però dall’interno e trascinandosi dietro un vero e allo stesso tempo simbolico bagaglio (che sia carrello della spesa o trolley) di rimorsi e rimpianti. Quello di Sorrentino è un film che trova il suo significato nel viaggio, che come spesso accade, finisce per essere un viaggio alla ricerca di se stessi. L’idea di vendicare il padre, sfocia nella graduale crescita interiore di Cheyenne, che passa dalla fase in cui sente di morire della morte peggiore, “quella rimanendo vivi” , alla fase in cui prende consapevolezza che “la paura è una salvezza , tranne quella volta o due, in cui bisogna ignorarla”. Un viaggio incorniciato da tante storie, evocate da altrettanti volti, che vedranno e lasceranno in Cheyenne qualcosa di sempre diverso, qualcosa che gli permetterà di ritrovarsi sorridente, struccato, leggero e senza bisogno di trascinarsi dietro nessun “trolley o carrello” di dolore. Tra le cose che restano alla comparsa dei titoli di coda ,  innanzitutto le musiche di David Byrne (nel film interpreta se stesso) cantante dei Talking Heads, che Sorrentino  omaggia dando al film il titolo di una loro canzone,  e poi le inquadrature semplici ma essenziali, cariche di  primi piani che schiudono emozioni senza bisogno di troppe battute. “This must be the place” scorre lento ma intenso, proprio mentre si pensa che la storia si faccia troppo seria, ecco, che viene strappato il sorriso. Un film poetico e introspettivo: arricchisce noi, ma soprattutto il nostro cinema,che spesso, teme “il passo più lungo della gamba”

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