domenica 10 marzo 2013

Django Unchained": lo spaghetti western alla Tarantino è servito

 Non c’è mai fine al meglio. Queste le parole per descrivere l’ultimo lavoro di Quentin Tarantino.

A tre anni di distanza da Bastardi senza gloria, il maestro indiscusso del pulp, torna a conquistarci con Django Unchained: un film che, ancora una volta, semina vendetta e raccoglie giustizia, intervenendo cinematograficamente, laddove la storia ha mancato di “sanguinaria fantasia".

Iniziamo col dire che la pellicola è una dedica d’amore del regista, ai western italiani di una volta, in particolar modo, a quelli firmati dai veterani del genere come Sergio Leone e Sergio Corbucci.

Proprio dal "Django" (1966) di quest’ultimo, infatti, prende vita quello “Unchained” di Quentin Tarantino, senza però “rubargli” nulla, a parte il nome e un brano della colonna sonora.


La storia, ideata e scritta interamente dal regista, è ambientata in Texas, qualche tempo prima della guerra civile, e racconta di Django (Jamie Foxx), “la D è muta”, uno schiavo di colore che ottiene la libertà grazie al fortunato incontro con lo scaltro Dottor Schultz (Christopher Waltz), un dentista diventato cacciatore di taglie. Tra i due, ben presto, nasce una complicità che li porta a diventare soci e a percorrere insieme le lande innevate del Texas con lo scopo di collezionare cadaveri di criminali bianchi, in cambio di laute ricompense. Alla fine del loro “sporco lavoro”, decidono di mettere in piedi un ambizioso piano per liberare Broomhilda, l’amata moglie di Django, dalle piantagioni del perfido e sadico latifondista di nome Calvin Candie (Leonardo di Caprio).

Quentin Tarantino, dall’alto della sua cinefilia, sa come miscelare ciò che di grande hanno fatto gli altri con quello che di grande sa far lui; ruba e crea, con un’abilità talmente palese da non poter essere condannata ma bensì esaltata.

In Django Unchained, non c’è solo Django di Corbucci, ma anche un assaggio di Lo chiamavano Trinità e un pizzico de Il buono, il brutto e il cattivo, tutti ingredienti che, una volta miscelati insieme in modo evidente ma non prepotente, hanno reso il primo e tanto agognato “spaghetti western” alla Tarantino, una pietanza dai sapori sicuramente western, ma anche spiccatamente goliardici e soprattutto deliziosamente pulp.

Quella elargita, per la prima volta sul grande schermo, dal regista è, potremmo azzardare, una fusione che lega in maniera precisa ma flessibile, due generi distanti ma non troppo. Risulta evidente che l’obiettivo, oltre a quello di girare un western, era soprattutto quello di riportare alla luce la sua essenza originale, per poi diluirla, magistralmente, con una buona dose di dialoghi “tarantiniani faccia a faccia” e con litri di sangue vermiglio, marchio distintivo di tutti i film di Tarantino.

Snocciolando la pellicola, che scorre semplice e lineare, si scopre infatti che, mentre i colori sabbiosi, i bar con le porte di legno ciondolanti, i giocatori di carte accaniti, gli sputi, le inquadrature che partono dagli stivali da cowboy e le sparatorie rapide, rendono giustizia al genere western, i dialoghi taglienti, persuasivi, quasi minacciosamente grotteschi, (vedi le opere di convincimento di King Schutlz) e i fiumi di sangue sul finale, sono un tributo fondamentale al genere pulp, portato degnamente avanti da Tarantino.

Ancora una volta, dopo il glorioso Bastardi senza gloria, il film subisce una svolta decisiva quando viene messa in piedi una recita/inganno, un gioco di ruoli che seppur inizialmente impeccabile, non sfugge mai agli occhi infidi dei cattivi di turno. La mano del protagonista, dunque, scatta sul fodero della pistola, la telecamera si muove lenta, lo spettatore sa, che sta per succedere di tutto.

È da notare inoltre, come serietà e humor, nel film, siano perfettamente dosati: scene di svariati minuti come quella dei sacchetti di pezza in testa bucati male, da cui non si vede nulla, stilisticamente richiama, seppur in un contesto del tutto differente, l’intro de Le Iene, in cui sono tutti seduti intorno ad un tavolo a parlare di “Like Virgin” di Madonna; lo spettatore, per un attimo, rimane piacevolmente interdetto, poi ricorda che si tratta di un film di Quentin Tarantino e quindi comprende tutto, anche l’humor fuori asse narrativo.

Tra le scene più rigide del film, invece, ci sono, ovviamente, quelle dedicate al tema “schiavitù”: frustate, schiavi maltrattati e mangiati da cani inferociti addolorano la vista, ma servono per prepararci al dolce sapore della vendetta e a rispondere, coi fatti, alla domanda dell’ignobile Calvin Candie: “perché, mi chiedo, non si sono mai vendicati?”.

Ed ecco che la risposta giunge chiara e feroce dallo schiavo nero vendicatore, Django, eroe innamorato, senza macchia e senza paura, che come Siegfried, nella leggenda tedesca narrata da Schultz, uccide il perfido “drago”, per salvare la sua bella, Broomhilda.

Tanti i personaggi sul set, due addirittura interpretati da Franco Nero (il Django originale) e dallo stesso regista, ma gli attori principali si contano sulla punta delle dita: Jamie Foxx, Christopher Waltz, Leonardo di Caprio e Samuel L. Jackson.

Impossibile non spendere parole su Christoph Waltz e sulla sua magistrale interpretazione che, dopo quella del terribile tenente Hans Landa in Bastardi senza gloria, si mantiene fluida e convincente. Waltz, nominato recentemente agli Oscar come miglior attore non protagonista, è un attore completo, con un’ eccezionale espressione corporea, facciale e vocale (vedi in lingua originale).

Che dire, inoltre, di Leonardo di Caprio, l’unico del cast a non aver mai lavorato prima con Tarantino. Una sorpresa per il regista che lo definisce “il primo cattivo che non amo nemmeno io”, ma anche per noi, che pur conoscendo le sue abilità attoriali, siamo rimasti particolarmente soddisfatti della sua performance nei panni di uno schiavista senza scrupoli, con la passione per la lotta tra mandingo.

Ciò che completa egregiamente la pellicola, è l’ accurata colonna sonora nella quale troviamo due brani “rubati”: “Django” di Luis Bacalov (soundtrack dell’omonimo film di Corbucci) e “Trinity” ( spettacolare soundtrack di Lo chiamavano Trinità), ma anche un inedito, “Ancora qui” composto da Morricone e cantato da Elisa, un omaggio sonoro alla nostra Italia che, da sempre, ispira il regista.

Ancora una volta, dunque, siamo orgogliosi del cinema “tarantiniano” che, a prescindere dal fatto che “o si ami o si odi”, riesce sempre ad andare a segno, come un proiettile al cuore .

A conferma del fatto che i film di Tarantino sono sempre collegati tra loro, c’è una recente intervista nella quale, il regista, ha svelato che Bastardi senza gloria e Django Unchained, sono solo i primi due film di una trilogia più ampia che ha come tema principale la vedetta storica.

Ora che anche il secondo capolavoro (nominato agli Oscar come miglior film) della trilogia è stato promosso a pieni voti, non ci resta che aspettare il terzo capitolo conclusivo che, possiamo arrischiarci ad affermare, difficilmente ci deluderà.

Leggi questa recensione anche qui:  http://www.infooggi.it/articolo/speciale-oscar-2013-django-unchained-lo-spaghetti-western-alla-tarantino-e-servito/36151/

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